Una parte di me
una parte di me (1)
una parte di me (2)
una parte di me (3)
Si rinchiuse in casa per settimane, quasi fosse morta anche lei. Alcune
persone erano venute a conoscenza del suo rapporto con Giorgio. Tacevano per
pietà. Il rischio di rappresaglie era ancora alto.
Qualche donna preoccupata per le sue
condizioni, andava a trovarla. Offriva il suo aiuto. Gina le allontanava, ferma e gentile diceva che
voleva rimanere da sola. Fu in quei
giorni, trascorsi nel dolore più cupo, che si rese conto di non esserlo più. Io
stavo crescendo dentro di lei. Le procuravo i giramenti di testa, le nausee.
Quel malessere che attribuiva all’abbandono. Fu per me che decise di essere felice. Se lo
ripeteva con tanta convinzione che a un certo punto le riuscì quasi possibile crederlo.
Si, lei era felice. La guerra era finita e la sua gravidanza si faceva
più evidente. Passò qualche mese, io vidi la luce a settembre. La tenevo
impegnata chiedendole attenzione. Le rimaneva poco tempo per pensare a mio
padre. Gina voleva disperatamente essere felice per se e per il suo bambino che
non sapeva come sfamare. In quei giorni pensò a un modo per
mantenerci. Decise di far diventare la
sua casa un’osteria. L'aprì nei primi mesi del ’46 e il futuro a Gina sembrò possibile. Il locale era caldo, accogliente.
Ci si andava per giocare a carte, parlar di politica. Le comari, di mattina, vi
acquistavano il sale e il caffè. In quel
luogo avevano l’impressione di sentirsi ancora vivi, la solitudine pesava meno
e chi voleva, poteva far finta di essere informato. La radio era giunta l’anno
prima, nuova fiammante, faceva bella mostra di sé sulla mensola. Usata con
parsimonia. Percepita ancora come un
piccolo lusso. I giornali, seppur con
ritardo, facevano la loro regolare comparsa.
Tante cose erano cambiate dopo la guerra. Il paese sembrava ripiegato su
se stesso. Preda di
mille abbandoni. I vecchi si riunivano sull’uscio per
divagar della vita passata. Molti
giovani erano
lontani. Rivivevano nei
racconti dei parenti a cui li legava un filo fragile, fatto di lettere sempre più rade. Giungeva, ogni
tanto, qualche telefonata consumata in
fretta, nell’osteria, l’unico posto attrezzato. Quasi a ogni ora, si percepiva
un leggero brusio. Telefonare
costringeva a portarsi una mano sull’orecchio ed alzare il tono. Serviva per le
cose urgenti, costava. Diventava il regalo di chi stava in città, perso in
frenetici ritmi che lo spingevano a scrivere sempre meno. La gioia, per chi restava, era in una voce
che suonava meno conosciuta, in una quotidianità giusto appena sfiorata dopo che si era persa
nella lontananza. Per il resto c’erano le cartoline, i telegrammi scritti per
necessità o le lettere-riassunto di una vita che scorreva altrove.
Gina non sarebbe mai partita, solo
lì aveva conosciuto la felicità. Le sembrava il posto giusto dove crescere suo
figlio. Si sentiva utile in quel luogo. La gente con lei si confidava. Mi
ricordo, quasi fosse ieri, le signore anziane che dividevan con lei le loro
pene, stanche per il peso della solitudine. Le era sempre riuscito facile ascoltare. Quasi come respirare. Sentiva il peso e la voglia dei ricordi. Come fossero un
bene prezioso da riporre con cura, da conservare. «Sono una parte di me»
rispondeva a chi le chiedeva il perché
di tutto quel attaccamento al passato. Il
suo conforto e la sua condanna. Non c’era bisogno di dire altro. Chi provava a
capire, capiva. Gli altri si zittivano, poco propensi ad accettare quella spiegazione e allo stesso tempo
incapaci di continuare a conversare. Io semplicemente l’amavo. Era mia madre. Il suo sorriso e le sue storie mi
fanno compagnia ancora oggi.
Sono il bene più prezioso.
fine
Ringrazio chi è giunto
fino a qui. Era la mia prima esperienza con un racconto di queste dimensioni.
molte cose sono ancora da correggere, da migliorare. però è un inizio e di
questo sono contenta