martedì 29 giugno 2010

and the winner is...

McKenzie disse  "Uno - Due – Tre: palo."


Cavendish gli si lanciò contro urlando "Un cavolo!".


Iniziarono ad azzuffarsi peggio di due cow-boy in
un saloon. I compagni di gioco per un pò stettero a guardare poi, esasperati,
provarono a dividerli. Barry Black, il maniscalco, rimediò un morso sulla mano
e Mary Bloody, la maestrina, dovette fare i conti con un occhio nero. 


Il saggio del villaggio, il vecchio Joe Spritz,
giunto alla veneranda età di centodue anni, tre denti e quattro capelli,
esperto nel dirimere le questioni più complicate, sbottò in un:
"Lasciateli sfogare" e puntualmente  fu ascoltato. I giocatori
si distribuirono sugli spalti, in mezzo ai tifosi, dividendosi in due fazioni piuttosto
agguerrite. Mckenziani e Cavendishesi  si lanciarono bucce d'arancia,
gusci di noci, crostoni di pane e oscure minacce fino all’esaurimento di ogni
munizione. L'arbitro, accampando la necessità di una buona visuale, si sistemò
nella fila più alta con un occhio aperto e l'altro in ritiro.


Cavendish e McKenzie intanto continuavano ad
accapigliarsi. Avano provato le mosse greche e quelle latine, si erano spinto  sino agli
sgambetti ma non erano riusciti a prevalere l'uno sull'altro. Infine a mezzanotte e
tre quarti, dopo otto ore di zuffa, decisero di aver provato abbastanza. 
Si strinsero la mano e al grido di "Bubbole" e "Bubbole al
quadrato" contarono i danni. Pochi a dire il vero. Un paio di lividi e due
graffi. Le divise, tolta la polvere, sembravano essere appena uscite dalla
lavatrice. I due uomini fecero un cenno verso gli spalti. L'arbitro si ridestò
e in piedi, sull'ultimo gradino dell'ultima fila, diede voce al triplice
fischio, registrò lo scialbo pareggio insieme a una nota sul taccuino: "Mai
più qui". Il segnale fu accolto con sollievo dai tifosi che, ormai prossimi
al letargo, avevano iniziato a scendere in file ordinate di due con il resto di uno e si erano avviati, sonnecchiando, verso il villaggio.


Barry Black e Mary Bloody erano rimasti  a
bordo campo, intenzionati a regolare le ultime questioni. Il morso e l'occhio
nero furono debitamente restituiti e la tregua siglata. Infine,  accompagnati dalla luna, tornarono a
casa, fischiettando sconci motivetti scozzesi.

giovedì 24 giugno 2010

Capitani Coraggiosi

 

Cannavaro
FABIO CANNAVARO

Azzurri, tutti a casa

Paraguay, Nuova Zelanda, Slovacchia. Sembrava una passeggiata. Non per
la posta in gioco, la 
qualificazione agli ottavi, quanto per il passo dei giocatori azzurri
in campo. Sempre sotto di un goal,  più lenti, sfilacciati, distratti
degli avversari. Se nella prima partita potè l'orgoglio, nel costruire
speranza,  poi  una precaria condizione fisica, la sciatteria, la
mancanza di idee hanno avuto la meglio. (continua qui)

(foto tratta da
www.gazzetta.it)

Azzurri, tutti a casa

ITALIA - SLOVACCHIA  2-3

Paraguay, Nuova Zelanda, Slovacchia. Sembrava una passeggiata. Non per la posta in gioco, la
1208714734 qualificazione agli ottavi, quanto per il passo dei giocatori azzurri in campo. Sempre sotto di un goal,  più lenti, sfilacciati, distratti degli avversari. Se nella prima partita potè l'orgoglio, nel costruire speranza,  poi  una precaria condizione fisica, la sciatteria, la mancanza di idee hanno avuto la meglio.

L'Italia ha camminato, spossata, per più di un'ora, lasciando che la Slovacchia, alla prima esperienza mondiale, la sovrastasse  per gioco, tecnica e condizione fisica. Il goal di Vittek al '25 del primo tempo non generava reazioni. Gli azzurri continuavano a subire, esibendosi un'abulica calma piatta, privi di personalità e mordente. Nel secondo tempo gli ingressi di Maggio e soprattutto di Quagliarella e Pirlo, contribuivano a migliorare la situazione. Pirlo era l'unico ad avere visione di gioco e capacità di smistare i palloni. Quagliarella, volenteroso, si faceva avanti tentando di rendersi pericoloso. Serviva il secondo  goal slovacco per scatenare un tentativo di reazione. Il goal di Di Natale riaccendeva le speranze, il terzo goal slovacco le affossava. Quagliarella segnava il secondo, inutile, bel goal. 

Il forcing finale, la possibilità di agguantare la qualificazione con un pareggio, sono forme sottili di tortura, illusioni che hanno reso più amaro il risveglio.

Il Ct azzurro in conferenza stampa esordisce assumendosi l'intera responsablità di quanto accaduto, afferma  di non aver saputo preparare la squadra nel modo giusto, una squadra scesa in campo "con il terrore, nella testa, nelle gambe, nel cuore". Lippi non ha spiegato le scelte tecniche. Anche questa è tattica e non attenua le responsabilità dei  giocatori azzurri che sembravano essere lì per caso. Privi di volontà e di forma, bambini irrisolti che prima
allontanano la qualificazione per poi tentare di riacciuffarla.

L'Italia esce senza scusanti. Al primo turno, come nel 1974. Non essere capace di vincere, e
convincere, contro nessuno, serve a spiegare il ritorno a casa,
l'ultimo posto nel girone, la vergogna.

mercoledì 23 giugno 2010

un frammento

Piove a dirotto. Le persone percorreno veloci il marciapiede riparandosi con grossi ombrelli scuri. Un uomo si volta, sorpreso, osserva una donna che gli va incontro. E' la stessa a cui ha dichiarato il suo amore, un attimo prima, in taxi. Una donna che pensa di non appartenere  a nessuno e che nessuno le appartiene. Cerca Gatto, lo aveva abbondonato convinta che fossero accomunati dallo stesso destino. E' pentita, lo chiama, si addentra in un vicolo, tra i bidoni della spazzatura, le scatole di legno e la pioggia. Silenzio. Guarda l'uomo, incerta. Sente un miagolio, abbassa lo sguardo, lo vede, è intirizzito,  rannicchiato in  una scatola, lo raccoglie e infila nell'impermeabile. Grondano acqua. La donna si avvicina all'uomo e lo bacia. La pioggia continua a cadere.

domenica 20 giugno 2010

Azzurri, All Whites, occasioni e delusione

Italia - Nuova Zelanda 1 - 1 

La Nuova Zelanda peggiore squadra del Mondiale, qualificata a Sudafrica 2010 solo perchè l'1208714734Australia ha 
 giocato nel girone asiatico. Serve la goleada, il Paraguay ha vinto 2 a 0 con la Slovacchia. Meglio essere primi o secondi del girone?  I discorsi del pre-partita sono stati accantonati in fretta. Lippi ha schierato la stessa squadra che è scesa in campo, nel secondo tempo, contro il Paraguay. I neozelandesi vanno giù pesante con i gomiti e l'arbitro, che alla vigilia era stato definito uno dal cartellino facile sembra piuttosto accomodante. Al '7 minuto gli All whites passano in vantaggio. Bello il cross, Cannavaro provvidenzialmente in mezzo serve da appoggio, Smeltz, in fuorigioco,  mette dentro la palla. 

Gli azzurri provano a reagire, invischiati nell'ennesima partita in salita. Sembrano meno convinti, ancora più in difficolta nell'arrivare davanti al portiere avversario.  Al '28 De Rossi coglie l'occasione, Nelson gli tira la maglia e lui cade, in  area. Rigore. Iaquinta si avventa sul pallone dicendo che vuole pensarci lui e così è. Dopo una lunga attesa, l'arbitro da il via. Iaquinta spiazza il portiere e segna: 1 a 1  Gli azzurri festeggiano imitando, nei gesti, le ormai celebri Vuvuzelas.

Ci sarebItalia_32_672-458_resizebe spazio per fare molte cose però il tabellino resta fermo e rallentano anche le speranze azzurre. Tra il primo e il secondo tempo le sostituzioni Pepe e Gilardino sostituiti da Camoranesi e Di Natale, al '61 Pazzini prende il posto di Marchisio.

Per provare a riassumere questa partita mi viene in mente un episodio. Metà del primo tempo, l'Italia è ancora in svantaggio, Montolivo tira dalla distanza. Il pallone attraversa l'area, colpisce il palo destro, internamente, la porta trema, il pallone potrebbe entrare invece, inesorabile, corre lungo la linea di porta per poi scivolare a lato. 

E' un match condito di attese, vorrei ma non posso, sfortuna e scelte sbagliate. Insomma una partita da dimenticare   o meglio da studiare per evitare di ripetere gli stessi errori. Marchisio non  è un trequartista, non è un  centrocampista esterno, se lo si facesse giorcare nel suo ruolo forse giocherebbe meglio e sicuramente non avrebbe scusanti. Nel calcio non valgono le dinamiche del gioco del lotto, non si può trattere un giocatore che non segna da mesi (ogni riferiferimento a Gilardino è puramente intenzionale) come un numero ritardario e piazzarlo in campo pensando di riscuotere. Con tutta la stima per l'attaccante viola proverei altre soluzioni. Pazzini, per esempio, confidando in un pronto ritorno di Pirlo magicamente in forma spaziale.

Non è tempo di discutere su chi è rimasto a casa. E' ingeroso e poco reddittizio. Gli azzurri sono in Sudafrica e speriamo che ci dimostrino di essere la scelta giusta, gli unici capaci di portare avanti il sogno.

(immagine tratta dal sito www.gazzetta.it)

Gli Azzurri, la rai e la partita oscurata.

Vivo in Piemonte e ho toccato con mano la "beffa mondiale". Dal 43' minuto del primo tempo di Italia-Nuova Zelanda è sparito il segnale. E' tornato una decina di minuti dopo la fine della partita, In tempo per se1208714734ntire il giornalista Marco Mazzocchi che, su rai1, diceva "Non vi siete persi molto".  Una battuta mal riuscita che non serve a lenire la delusione, per il risultato degli azzurri e per l'impossibilità di seguirli, sostenerli, vivere la partita fino al '90.

La rai  stà fornendo un pessimo servizio. Trasmette una sola partita al giorno, il resto è su sky. Gli spazi dedicati al mondiale sono riempiti dagli interventi di opinionisti, veline, giornalisti che si dedicano a un vuoto chiacchiericcio e a classifiche del tipo: il più bello e il più brutto tra i giocatori che sono scesi in campo. E' avvilente seguire questo tipo di trasmissioni.

mercoledì 16 giugno 2010

"Il gioco dell'angelo" prime impressioni

Carlos Ruiz Zafòn, autore   dell' Ombra del Vento e di Marina, è bravo nel  catturare l'attenzione del lettore. Capitoli brevi, colpi di scena disseminati nei punti giusti che spingono a voltare pagine ed
Gdfgdf addentrarsi nella storia fino quasi a sentirla addosso come un vestito, una sensazione che investe e lascia spossati, febbrilmente interessati a sapere come va finire, se il protagonista-narratore  che si è adottato, per cui si fa il tifo, riuscirà a sbrogliare la matassa o, sempre più legato, sarà costretto a soccombere. Mistero, cuore, morale,  avventura sono gli ingredienti anche se a  tratti, spesso nelle ultime 150 pagine,  si inciampa sull'orrido.
Zafòn mi ricorda certi romanzieri dell'ottocento, maestri, capaci di annullare le distanze e legare a sè il lettore per infinite pagine (439 non sono poche). Leggere questo romanzo è tornare a Barcellona, aggirarsi nella città, assaporare i luoghi, i nomi delle vie come fossero vini d'annata, sentirsi impauriti e insieme affascinati dai misteri che vengono narrati con maestria.
Eppure a  volte si fa strada anche un'altra impressione. Se penso a Zafòn ora che sto leggendo il suo secondo romanzo (il primo era L'ombra del vento) mi chiedo se non sia un giocatore di poker, dalla faccia inespressiva che,  a ogni giro, rilancia, sembre più in alto, lo guardo e non so se ha buone carte o sta bleffando.  La questione è questa: dopo aver messo in campo tutte le armi del mestiere, aver incuriosito, offerto la sensazione di vivere una storia, fare un viaggio, nel finale mi sembra si perda, diventa meno incisivo, declina verso l'horror e mi spinge a rallentare la lettura, avvalendomi dei diritti  affermati dallo scrittore Daniel Pennac, in particolare del diritto di saltare le pagine.  Ho l'impressione che tanto è intensa la lettura quanto è veloce il processo di accantonamento e oblio. Insomma il dubbio è che tra tante qualità, questo libro nasconda il difetto di non lasciare il segno. Mancano 100 pagine alla fine, sono pronta a essere smentita anche se ho già sbirciato l'ultimo capitolo e non mi ha convinto molto.

lunedì 14 giugno 2010

Italia - Paraguay 1-1

Gli azzurri debuttano al mondiale. A Città del Capo piove a dirotto, è inverno. Il suono dei  Vuvuzela   è la colonna sonora del match, uno sciame festante e rumoroso. Sì, fa la differenza avere uno sciame d'api nelle orecchie per '90 minuti  però la festa è lì, nelle tradizioni, nella divertita sorpresa con qui si impara a conoscere un pezzo di mondo.
1208714734 L'Italia ha lasciato a casa la fantasia. Ci si interroga su moduli, acciacchi e si tentano pronostici.
Paraguay. Non lo incontriamo dal 1950, quanta acqua è passata sotto i ponti. Gli azzurri corrono, si impegnano  ma non riescono ad arrivare sotto porta. Si conterà solo un tiro  sul finire del primo tempo.
Marchisio e Gilardino non convincono. L'arbitro messicano  Archundia consente  ai paraguayani di praticare un gioco falloso e a tratti intimidatorio (vedi fallo su Montolivo al  '1 minuto), non sembra in grado di gestire la partita. Il Paraguay passa in vantaggio al 39' con Alcarez che, circondato dagli azzurri, riesce a trovare il tempo giusto e colpire  di testa.
Gli azzurri scendono in campo nella ripresa senza Buffon infortunato e sotto di un goal. In porta si piazza Marchetti, al centrocampo Camoranesi prenderà il posto di Marchisio e Di Natale, al '72,  sostituisce Gilardino. Gli azzurri tirano fuori grinta, carattere e fanno gruppo. Al '63 De Rossi, in area , riesce a a eludere la sorveglianza di un difensore avversario, si allunga e goaaalll!! Cercato, importante. L'Italia gioca, vuole  riuscire,  crede in una possibile vittoria, si spinge in avanti e finisce in crescendo.  Mi è piaciuta la grinta di Camoranesi, la personalità di De Rossi, Pepe che prova a mettere lo zampino in ogni azione. Criscito e Montolivo hanno fatto una prova positiva.
In una nazionale di giovani vecchi che provano ad amalgamarsi, tirando fuori motivazioni e coraggio, il carattere e la capacità di non abbattersi sono le note migliori. Molto resta da fare, la palla è rotonda e il mondiale è all'inzio. Rispetto alle amichevoli, contro Messico e Svizzera,  l'Italia è cresciuta e questa è già una buona notizia.

domenica 13 giugno 2010

Il segreto della mia felicità

INCIPIT
Finito di leggere, rimasi in silenzio per un po’. Lui non parlava  e così,  dopo essermi schiarito la voce, gli chiesi d’un fiato:
-    Come le sembra?

Don Pedro guardava davanti a sé. Sembrava profondamente concentrato, quasi assente.  Pensai che  stesse cercando le parole giuste per non ferirmi. Era un uomo diretto. Quando aveva qualcosa da dire,  lo diceva in faccia senza troppi preamboli. Forse lo frenava l’argomento.  Mi ero reso conto che l’amore lo costringeva al rispetto, ad un cauto timore, sorprendenti in un uomo della sua età ed esperienza.   Era arrivato a Roma da meno di un mese, spinto dal desiderio di approfondire le ricerche riguardo un letterato spagnolo del XVI secolo, tal Joaquìn Escrivantes, che aveva avuto la sventurata idea di trascorrere buona parte della sua  esistenza in Italia e di scrivere, in terra straniera, la sua opera più famosa ed acclamata.
Un professore dell’università l’aveva messo in contatto con me. Ci eravamo incontrati in un ristorantino di Trastevere dove mi aveva fatto la proposta:
-    Figliolo, mi serve un assistente che conosca la città e tu mi sembri un ragazzo sveglio. Non intendo fermarmi più di un mese quindi, se accetti, dovremo procedere a ritmo sostenuto.
Mi fissava, in attesa di una risposta che probabilmente già conosceva, decisi quindi di non tenerlo sulla corda.
-    Sì, Maestro.  Ne sarò onorato.
Avevamo siglato l’accordo con una stretta di mano e bagnato le labbra con un frizzante vino dei castelli.
Don Pedro era spagnolo fino al midollo, affermava  con una certa dose di sicumera   che ogni viaggio compiuto all’estero serviva a  fargli trovare nuovi motivi per amare il suo paese. Era un tipo ironico, un abile narratore e lavorare  per lui era stata la mia  migliore occasione dopo mesi di oblio.
Lo trattavo con la deferenza e il rispetto che i suoi titoli accademici  richiedevamo tuttavia, con il trascorrere dei giorni, vissuti a stretto contatto, iniziai ad aprirmi con lui su fatti che rientravano in una sfera piuttosto privata. Don Pedro mi trattava con condiscendenza, sembrava divertito e al contempo onorato dalla fiducia che gli riservavo, per questo mi ascoltava con interesse offrendomi anche qualche buon consiglio.
Gli avevo parlato di Chiara, di come c’eravamo incontrati in una libreria dove avevamo posato gli occhi sullo stesso libro. Ci frequentavamo,  scambiavamo opinioni su libri e film, lanciandoci frecciatine reciproche e provando a prevalere l’uno sull’altra, protagonisti di vivaci schermaglie.  Poi c’erano state le serate al cinema  e a teatro, una certa ritrosia da parte sua  che non sapevo se imputare alla timidezza o all’indifferenza alternata a momenti affettuosi e quasi intimi.  Mi ero innamorato di lei, come uno scolaretto alla prima cotta, ero tentato di incidere le nostre iniziali dappertutto, pensavo a quanti figli avremmo avuto, alla casa in cui saremmo andati ad abitare e mi davo dello sciocco un giorno sì e l’altro pure. Ero giunto alla conclusione che dovevo dichiararmi “E poi vada come vada” mi ero detto, in un raro momento di coraggio.
 Avevo trascorso due notti  in bianco, riempiendo fogli che regolarmente appallottolavo  ed infilavo nel cestino. Si erano salvate solo quelle poche righe. Ne ero geloso e insieme disgustato, mi sembravano finte, esagerate, quasi un invito alla fuga. 

Quella mattina mi ero alzato di malavoglia ed ero andato all'appuntamento con Don Pedro. Avevamo trascorso ore spulciando documenti in un polveroso archivio. Il ritrovamento di un paio di notizie utili a chiarire  i trascorsi dell’illustre letterato spagnolo, ci aveva rinfrancato. Don Pedro era di buonumore  ed io mi ero deciso  a   sottoporgli le righe che  avevo scritto per Chiara, sperando di venirne a capo, in qualche modo.

Don Pedro parlò:
-    Potresti avvicinarti a lei,  sussurrarle all’orecchio, con voce suadente:  Te quiero
-    Chiara è italiana.
-    Lo spagnolo è universale.
-    Si, ma anch’io sono italiano e almeno alla lingua vorrei rimanere fedele – accompagnai l’affermazione con un sorriso divertito.

Don Pedro alzò gli occhi al cielo, sembrava dire Non insisto però…
-    Da uno a dieci quanto tieni a questa chica ?
-    Undici – risposi convinto.
-    Bueno - disse in tono serio - ti consiglio di non usare la dichiarazione che mi hai letto.

Il  maestro  prese una penna e scrisse, rapido, qualcosa su un foglio. Dopo averlo piegato, lo allungò sul tavolo, dicendomi  - Leggi.

Lo presi in mano con timore, avevo quasi la sensazione di toccare una reliquia. Lo aprii, Iniziai a leggere e rimasi di sasso. Erano quelle le parole che cercavo da quando avevo conosciuto Chiara, le uniche che avrebbero potuto farmi toccare il suo cuore.  Rimasi incantato con il foglio aperto tra le mani. Alzai gli occhi e vidi  Don Pedro  che mi fissava preoccupato. Disse:
-    Paolo, amico mio, con l’amore non si scherza e non si imbroglia. Ora prendi quel foglio e strappalo.

Lo guardai incerto, speravo scherzasse, mi sembrava una crudeltà.
-    Strappalo. Dammi retta. Quando incontrerai Chiara troverai le parole giuste. Devi solo avere fiducia in te.
Feci come mi aveva detto. Piegai il foglio e lo strappai in più parti, il segreto della mia felicità divenne una manciata di coriandoli che lasciai atterrare sul pavimento.
Don Pedro, mi disse, osservandomi con simpatia – Paolo, ho fiducia in te. La conquisterai.
Prese in mano il quaderno degli appunti e si immerse nel suo lavoro.