lunedì 30 luglio 2007

In cerca di... (2)

In cerca di...


La signora Berti
era arrivata in paese una decina d’anni prima.  Stentava ancora con il
dialetto e tribolava anche nel capire
le persone del posto.
Lei e il marito si erano conosciuti come usava una volta. Una sua cugina era venuta a stare da quelle parti. Aveva una sua foto. Gianni l’aveva
vista e ne era rimasto incuriosito.   Iniziarono a scriversi. Poi, deciso l’incontro,
fu breve il passo che li porto all’altare. Si erano voluti bene da subito.


La signora Berti che di nome
faceva Nunzia, preparava il ragù almeno una volta la settimana. Per lei era
come recitare una poesia. L’unica poesia che conosceva. Impastata con i ricordi
di quando bambina aiutava la madre a rimestare in cucina. Sistemate le pentole sul
fuoco, lasciavano fare al tempo. Nunzia rimaneva a controllare che tutto
procedesse bene. La madre si sedava in un angolo e iniziava a rammendare, nel
mentre le narrava le storie d’un tempo che fu. Così le chiamava. Ninetta e
Tano, il loro amore senza fortuna. La sirena che aveva stregano il marinaio... Questi
personaggi popolavano il suo mondo di bambina. Quando adesso li raccontava ai suoi
figli in fondo li raccontava anche  un po’
a se stessa.


100_2730Fu in quel momeno che vide
passare in strada Bice. Sembrava piuttosto trafelata. Come fosse in ritardo. Era
strana quella ragazza. Da qualche tempo a quella parte sembrava muoversi sempre
in cerca di qualcosa e non dava mai l’impressione di averla trovata. Era
inquieta. Chissà dove stava andando.
Il ragù tornò a reclamare la sua
attenzione e la domanda andò perduta.

giovedì 26 luglio 2007

Luci...

Quattro assi inchiodate. Mi
sembrava fossero lì da sempre. Di profilo potevo intuire una barca. Una piccola
targhetta consumata Luci
oltre non
riuscivo ad andare. Mi sono chiesta spesso come fosse arrivata lì,
vicino a  un sentiero di montagna.  L’ho ritrovata in una vecchia
cartolina che la
ritraeva in mezzo al lago. Trasportava bambini dall'aria un po’
sorpresa che sorridevano di fronte all’obiettivo.
Scattata
quasi novant'anni fa, sul retro potevo ancora leggere la data di spedizione: 18 luglio 1920. Mi ha permesso di sapere
come si chiamava. Lucinda era splendende in quel lontano giorno di sole.  Un’altra viLago_morto_3
ta, un’altra storia che oggi sembrano
leggenda. C’era un rifugio sulle rive di quel lago. Dotato di ogni confort.
Pubblicizzato sui giornali e su cartoline postali che ne decantavano i servizi.
Venghino signori, venghino a toccar con
mano l’aria salubre
. A esser serviti
e riveriti in questo ridente spicchio di montagna
.
Lo gestiva un fotografo
piuttosto abile, si fregiava di una medaglia ricevuta ad un concorso
internazionale. Non mancava occasione per farne menzione. Il rifugio
funzionò
per qualche anno, poi divenne legna che bruciava. Il fotografo scomparve in qualche luogo indefinio. Oggi non rimane che un lago costretto ogni anno a
perdere un po’ di se stesso e quelle quattro  assi inchiodate.


Foto dal sito www.cartolineantiche.com


 

lunedì 23 luglio 2007

mercoledì 18 luglio 2007

In cerca di  ...




L’ultimo treno
partiva quel giorno. Lei lo sapeva. Non voleva perderlo. Troppi erano stati i
ritardi, le incomprensioni che le
avevano fatto abbandonare i suoi sogni per strada. Ora voleva raccoglierli uno
a uno e provare a coltivarli  come
fossero fiori. L’età non è colpa e non lo è l’inesperienza. Si ripeteva queste
parole quasi cercando di farne una cosa propria. Sua madre usava questa espressione
ogni volta che lei si sentiva in colpa per qualcosa. Cercava di darle conforto
e spesso ci riusciva, facendola sentire amata. Le dispiaceva doverla lasciare
ma non poteva fare diversamente. Era la sua vita. Sapeva che avrebbe capito.


Andò sola alla
stazione. Mezzogiorno, un afoso mezzogiorno d’estate. Nemmeno il vento a dare
un po’ di sollievo. Solo caldo. Avvolgente, quasi urticante, costringeva a
cercare un riparo. Un ombra dove abbandonare
i propri pensieri. Gli abitanti del piccolo borgo erano rinchiusi nelle loro
case. Le finestre spalancate, il vociare che si perdeva in strade ormai
deserte, stavano per mettersi a tavola. Quanti odori  si mescolavano nei minuti che precedevano il
pranzo. La Signora Berti e quel suo ragù che
sapeva di cipolla. Mario abituato a mangiar patate anche a colazione oggi aveva optato per una fumante minestra. L’odore
intenso del caffè  che la signora Rosa
preparava sempre prima. Gli odori era sempre piaciuti a Bice.


La donna guardava
per terra. Un passo dietro l’altro attraversava strade che conosceva  come le sue tasche. Nel tempo che impiegò a salire sul treno, vide la sua vita
scorrerle a fianco. Aveva deciso di non portare nulla con sè  però i ricordi
sono difficili da abbandonare. Scacciarli si era rivelata un’utopia mal
riuscita.  Così mentre prendeva posto, su
un vecchio vagone ormai stanco, fu costretta a incontrarli.


Forse la distanza.
Si, forse quel treno che iniziava a sferragliare, rumoroso, poteva essere il
suo futuro. Con questo pensiero si abbandonò sullo scomodo schienale di legno e
chiuse gli occhi. La campagna scorreva veloce fuori dal finestrino e lei non
era più lì.

lunedì 16 luglio 2007

ESTATE

galeriaIn bilico

tra santi e falsi dei

sorretto da

un’insensata voglia

di equilibrio

e resto qui

sul filo di un rasoio

ad asciugar

parole

che oggi ho steso

e mai dirò


non senti che

tremo mentre canto

nascondo

questa stupida allegria

quando mi guardi


non senti che

tremo mentre canto

è il segno

di un’estate che

vorrei potesse non finire mai


in bilico

tra tutti i miei vorrei

non sento più

quell’insensata voglia

di equilibrio

che mi lascia qui

sul filo di un rasoio

a disegnar

capriole

che a mezz’aria

mai farò


non senti che

tremo mentre canto

nascondo

questa stupida allegria

quando mi guardi


non senti che

tremo mentre canto

è il segno

di un’estate che

vorrei potesse non finire mai


in bilico

tra santi che

non pagano

e tanto il tempo

passa e passerai

come sai tu

in bilico e intanto

il tempo passa e tu non passi mai


nascondo

questa stupida allegria

quando mi guardi


non senti che

tremo mentre canto

è il segno

di un’estate che

vorrei potesse non finire mai!



(testo Giuliano Sangiorgi)

Foto tratta da: http://www.lajiribilla.cu

Regine del trash o regine di niente..

E' solo questa l'alternativa ?


In questi giorni si è discusso su quanto pubblicato dal Financial Times. Il giornale britannico  si interroga sul perché
in Italia sia ricorrente il sogno di diventare velina o showgirl a dispetto di ambizioni
più alte. Il giornale ipotizza che vi sia un collegamento tra questo sogno e la
mancanza di donne in ruoli al  vertice dell'economia e della politica. Non so
quanto sia ramificato il fenomeno “voglio diventare velina”. Penso che le donne
siano qualcosa di più e di meglio di una categoria  riassumibile in
un sogno monocorde che risponde alla parola: visibilità.
Detto questo, il  servizio del Financial Times  più che un atto d’accusa mi sembra un buon
spunto di riflessione sulla situazione attuale. Le donne ai
vertici in Italia sono poche. Il modello velina viene servito, in tv, a
ogni ora del giorno e della notte. Si richiede un bel fisico, il cervello
non è indispensabile. Gossip è la parola magica che apre infiniti orizzonti di
notorietà. Così, questo messaggio  riproposto
in più occasioni come la soluzione diventa un’ammazza-sogni in grado di far
perdere di vista ciò che giusto e ciò che è sbagliato ma soprattutto ciò che
vorremmo essere.


  Se si coniasse il motto accendi la TV e spegni la ragione si
andrebbe molto vicino al vero. La TV però non accetta critiche e non accetta di farsi giudicare. Gli inglesi
dicono che le italiane sono un popolo di veline? Bene poniamo la discussione sul piano
della rivalità tra popoli. Chi sono gli inglesi per dirci questo? Guardate un po’
cosa trasmettono loro. Immagini di cattivo gusto, reality disgustosi e fine della
discussione. A condurre un servizio su questi toni è stato Studio Aperto. Teoricamente un telegiornale. Io, In difficoltà nello stabilire chi ha vinto penso che a perdere
siamo solo noi. Regina del trash o regina di niente. E’ solo questa l’alternativa?

domenica 8 luglio 2007

Ermete Zacconi


quello che sapeva tirare i calci di rigore


Era
il migliore. Come tirava i calci di
rigore lui, non li tirava nessuno
dicevano i vecchi mentre gli occhi si
perdevano nei ricordi. Niente rincorse, finte o altri trucchetti. Posizionava il pallone sul dischetto e
tirava. Segnava con una regolarità
disarmante. 


I
portieri quando se lo trovavano davanti provavano una certa apprensione. Lo scrutavano con Cesariniattenzione cercando indizi utili a capire le sue intenzioni.
Lui li guardava di rimando. Né preoccupato, né arrogante, aveva l’aria di uno
finito lì per caso. Non era facile trarne qualcosa. L’arbitro fischiava. Era
arrivato il momento. Mi butto di qua o di
là? Aspetto che tiri?
Il portiere
consumava gli ultimi istanti  in
decisioni frettolose. Certe volte indovinava pure il lato in cui buttarsi. Poi
però non aveva il tempo di cullare il sogno dell’impresa. Era prossimo alla
parata quando il pallone, sordo alle sue preghiere, si spostava quel tanto che bastava a
proseguire il suo viaggio in fondo alla rete. Lo stadio si alzava di scatto,
esultante e indispettito, per celebrare un goal a effetto che riusciva a essere speciale.


Lui,
al secolo Ermete Zacconi, si muoveva tranquillo verso il centrocampo. Sorrideva
mentre i compagni gli andavano incontro per festeggiarlo.


Rimane
qualche foto in bianco e nero, ingiallita dal tempo, che lo ritrae insieme alla
sua squadra,  fissa l’obiettivo
con piglio sicuro. In altre immagini lo
si vede in azione. Il corpo proteso in avanti, i piedi fedeli compagni del
pallone, intento a costruir gioco. Era un centrocamporigoristad’assalto e
questa definizione gli piaceva recitarla d’un fiato quasi fosse un titolo, ne
andava fiero.


Fantasioso
nel giocare quanto era metodico nell’allenarsi. Sembrava tagliato per fare l’impiegato,
aveva pure studiato, il calcio era l’evasione. Aveva iniziato a giocare all’oratorio
e continuato poi nei ritagli di tempo che la scuola gli lasciava. Giocava con
il pensiero quando non poteva fare diversamente. Si divertiva a immaginare la
partita.


Il
diploma in tasca, aveva fatto una delle prime scelte non sagge della sua vita.
Si era cercato una squadra. Voleva fare il salto nel professionismo. Si era quindi
presentato al Presidente della formazione cittadina chiedendo un provino. L’avevano
messo sotto contratto. Diede un contributo importante a raggiungere la
promozione. Giocò diversi anni in mezzo ai grandi. Discese e risalì alcune volte
in un altalena che non rimpianse mai.


Amante
riamato del calcio, era uno che sapeva
farsi voler bene. Tanti anni erano trascorsi da quando giocava però se
chiedevo di Ermete Zacconi alle persone che lo avevano conosciuto, vedevo il loro
volto illuminarsi. Sembravano tornati bambini, mentre mi parlavano di lui, il racconto prendeva i colori della leggenda.
Alla fine anche a me sembrava di averlo incontrato. Ermete Zacconi non si è mai
mosso dal campo. Lui e quel suo tiro indecifrabile.


Lui,
quello della foto, è Renato Cesarini. Juventino dal 1929 al 1935 a lui
si deve la zona Cesarini, espressione che sta a indicare gli ultimi
mininuti di una partita. I suoi minuti, quelli che lo vedevano segnare.


Fotografia tratta da: www.forza-juventus.com/biographies/cesarini.htm

mercoledì 4 luglio 2007

this is my last ...

Il match si trascinava stancamente verso la fine. Max, ormai padrone dell’incontro, sembrava vicino alla conquista del torneo.


Max era più di una promessa. La prima racchetta l’aveva tenuta in mano che non aveva nemmeno tre  Tennis
anni. Il tennis era diventato il suo pane quotidiano. Lo allenava suo
padre, tra i più giovani esordienti in tornei internazionali, a 20 anni
vantava un palmares di tutto rispetto. Aveva riempito casa con i trofei
conquistati in giro per il mondo e poteva contare su una sicurezza che
molti  colleghi gli invidiavano. La racchetta era una naturale
estensione del suo corpo, il campo da gioco il suo regno. A grandi
falcate o con piccoli, passi veloci lo attraversava  alla ricerca della
posizione migliore per colpire. Era sempre lui a gestire il gioco,
scegliere mosse e strategie. Un servizio poderoso rendeva tutto più
facile


Jule era stato un
giocatore promettente, aveva vinto un paio di tornei importanti e
scalato il ranking mondiale fino a raggiungere le prime posizioni poi
il buio.
Chi lo conosceva bene diceva che il black-out era coinciso con una
semi-finale  di Roland Garros persa in maniera rocambolesca. In
vantaggio di due set a zero, si era fatto rimontare dall’idolo di casa.
Vittima della paura di perdere non era riuscito a dare la zampata
decisiva. Di li in poi si era mosso incerto, fragile senza più
esprimere il bel gioco che lo aveva reso famoso. Aveva tecnica, era
potente ma non quanta serviva per diventare un campione. Ironicamente
lo definivano una promessa non mantenuta. Ciò Wimbledon01che
più gli mancava era il mordente. Quella luce che brilla negli occhi
dello sportivo quando la vittoria è il primo pensiero, la prima
necessità posta sopra a tutto.
Non riuscendo a primeggiare aveva imparato a perdere con stile,
spostando altrove la sua attenzione.  Ora che aveva superato la
trentina, molti ritenevano stesse solcando il viale del tramonto.
Sembrava imminente il suo ritiro. Gli era stato proposto di diventare
presidente di un circolo, lui aveva accettato. Non restava che
formalizzare l’impegno e appendere la racchetta al chiodo. Al grido di Questa è la mia ultima partita si
era fatto strada nel torneo sbaragliando ragazzini imberbi e giocatori
più titolati di lui. Era come se una buona stella lo accompagnasse.
Tutto ciò che faceva gli riusciva bene. Così giorno dopo giorno si era
conquistato le prime pagine dei giornali e la curiosità della gente. Le
vittorie l’avevano galvanizzato. Gli sembrava di non aver mai giocato
così. (continua..)


ispirato a Wimbledon


Foto dal sito:


www.comune.ancona.it


www.worth1000.com

Sonno: delizia e condanna di notti inquiete

sonno Dormivo e pensavo che questo
bastasse a tenere lontani i cattivi ricordi. Mi sbagliavo. La realtà
non ha rispetto neppure dei sogni. Si intrufola prima guardinga, poi sempre più
sfacciata e io rimango lì, sul luogo del delitto, con la sensazione di
un’evasione fallita.

lunedì 2 luglio 2007

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel
cercare nuovi orizzonti;  ma  nell'avere  occhi nuovi .

                       Wwwpianurarenoorg       Marcel Proust


Foto tratta da: www.pianurareno.org

domenica 1 luglio 2007

Start

I piloti posizionano le macchine
ai loro posti. I semafori si accendono. Si alza il rombo dei motori,
assordante. Quasi trattengo il respiro. Buio. Via. Partono veloci. “Mantieni
la posizione” “Avanza”. I commentatori si affannano nel cercare di capire cosa
sta succedendo, se la classifica è cambiata, chi ha fatto cosa a chi. Tutto succede
in maniera frenetica.  E’ la fase più critica,
la lotta per il posto davanti  accesa. Poi,
dopo il primo giro, conquistata qualche piccola vittoria e qualche grande sconfitta,
la gara entra nel vivo. I piloti impegnati nella difesa o nell’attacco si
muovono alla ricerca del giro più veloce, della  continuità e del sorpasso perfetto. Il rombo
dei motori segue percorsi diversi, quasi
si fa musica più sostenuta e a tratti  più tenue,  sempre lì a fare compagnia, parte di uno
spettacolo che prosegue per 70 giri con
le emozioni, le tattiche e le strategie che sono parte del gran premio. Le auto
macinano frettolosamente chilometri. Una sosta o due, cambio gomme e benzina,
poi si ricomincia. Stesso tracciato, stessa voglia di vincere, fino all’ultimo
giro. Un traguardo e il sogno di un podio. Poi, il pensiero a un'altra gara. Uno
spettacolo che si ripete a tratti uguale, in certi momenti unico.