sabato 24 ottobre 2009

cappuccino e brioche 2

prima

 L'ondata dei pendolari si era esaurita  e la
mattina scorreva lenta  tra i preparativi per il pranzo  e le pulizie
del locale. Al bancone un uomo alto,  con indosso un impermeabile grigio,
aveva ordinato un caffè. Un paio di tavolini erano occupati da signore con
valigia intente a conversare. Io mi ero sistemato vicino alla vetrata. La
colazione si era mescolata alle chiacchiere, Alfredo mi aveva 
ragguagliato sulle ultime novità e snocciolando un paio di aneddotti gustusi,
poi mi aveva confidato, per la trecentesima volta, da quando lo conoscevo, che
intendeva vendere tutto e trasferirsi a Cuba. Sorridendo  gli avevo detto
di riservare un posto anche a me. Mi ero alzato, gli avevo fatto un cenno 
di saluto e, sfilati un paio di fogli alla gazzetta, ero andato a
sedermi sulla panchina di fronte ai binari. Lì mi
sembrava di essere a un passo dal mondo, con una chiave in mano e desideri pronti per essere esauditi. Le gambe
incrociate, dopo aver lanciato un occhiata al binario sei che segnalava un
treno in partenza, mi stavo per tuffare nel calcio interregionale 
quando sentii battere su una spalla. Mi voltai svogliato e vidi, in piedi,
dietro a me, mister trentatrè.


- Si?


-Posso sedermi?


-Prego c'è posto - accompagnai alle parole 
un gesto della mano e rimisi la testa nel giornale.Vi nascosi anche un
sorriso spuntato a fior di labbra. Lo avevo incrociato nel
bar di Alfredo. Era l’uomo dell’impermeabile,  capace di girare trentatrè volte il
cucchiaino nel caffè prima di  accorgersi
di aver dimenticato lo zucchero.  Eppure sembrava uno con la testa sulle spalle.

lunedì 19 ottobre 2009

cappuccino e brioche


Era una giornata  talmente brutta
che se avessi avuto una casa e un letto, mi sarei infilato dentro l’una e
l’altro senza nemmeno spegnere la luce. Pioveva dalle tre, acqua fitta e noiosa
che colava lungo gli abiti e nel respiro delle poche persone che si avventuravano
sul marciapiede. Faceva freddo ed era autunno, la logica  però non bastava a farmene accettare i
fastidi. I musi lunghi si sprecavano così come le scarpe infangate, le dite
arrossate e gli ombrelli che miravano dritto agli occhi.

Dopo aver percorso una decina  di volte i portici, in un senso e nell'altro,  mi ero deciso ad accettare l’invito della stazione.
Entrando mi ero diretto al bar di Alfredo, quello grande che si
trova a sinistra in direzione dei binari. Dotato di un sistema di riscaldamento
piuttosto efficiente si distingueva  per
la sensibilità nell’accettare i tempi della mia  colazione. Me la cavavo nei giorni buoni in
tre quarti d’ora, quando andava proprio male un ora e mezza ed avevo finito.
Era un’arte anche il centellinare 
brioche e cappuccino fino a renderli infiniti però pochi baristi
riuscivano a cogliere la maestria del gesto. 
I  più educati iniziavano a
fissarmi con decisione illudendosi di indurmi alla ritirata, i più solerti
infestavano il tavolino dove mi sedevo con richieste di ordinazioni. Io
resistevo e resistevo, l’unica volta che ero sceso a un compresso era stata
quando un barista aveva appoggiato un tassametro sul mio
tavolino. Quel ticchettio molesto, s’era infilato nelle mie orecchie fino a
farmi decidere di ritirarmi dopo appena un quarto d’ora. Non avevo lasciato
neanche un sorriso in quel posto, mi ero ripromesso di non metterci più piede e
con gli anni avevo messo su una certa esperienza nel trovare  buone accoglienze. Alfredo però rimaneva il
migliore.


domenica 11 ottobre 2009

in viaggio

Milano - Stazione Centrale

Scendo
dal treno, mi confondo tra i  passeggeri che si muovono in direzione
della stazione trascinando le loro valigie. L'enorme tettoia di vetro e
metallo ci accompagna per un pò trasmettendo una sensazione di
progresso retrò. Sono le 11 del mattino di un sabato di inizio estate.
La stazione brulica di vita, persone e storie che si stagliano una  di
fianco all'altra,  si sfiorano per poi non toccarsi più. I colombi si comportano come i proprietari della stazione, puntano  nella tua direzione e
non sembrano volersi scansare neanche quando stanno per lambirti i
piedi.

Il primo impulso è di
lasciarsi fagocitare dal ritmo veloce che percorre questo pezzo di
mondo.  Trascino il Trolley facendo il giro della stazione, osservo,
spero che il tempo passi. Sui muri scorci a mosaico di città d'arte.
Rimango per un attimo incantata a osservare la mia Firenze. La riscopro
piano: il campanile, il Duomo, la Chiesa di Santa Croce, Palazzo
Vecchio, il David. Un luogo di buoni ricordi che mi strappa un sorriso
di nostalgia. Dall'altro lato figure mitologiche che trasmettono la
sensazione di essere dentro terme di epoca romana.

I lavori in corso 
sono anche qui. La gente si sistema come può. Aspetta, c'è sempre
troppo o poco tempo per chi vive la stazione. Accampata sul pavimento,
raccolta in un bar per racchiudere, nell'attesa, almeno un panino.

Molti
si sistemano davanti al tabellone degli arrivi e delle partenze con il
naso all'insù, in attesa che appaia il numero del binario,  attenti,
partecipi come  se  i numeri  che stavano per uscire  fossero quelli
di  una combinazione  giocata al lotto,   in grado di cambiare il loro
destino.

Scale mobili e immobili invitano all'uscita, le
osservo senza desiderio. Mi ritiro in disparte, di fianco a un
international press tra il binario 8 e il binario 9. Da una trave pende
una catena che sostiene un orologio ottagonale. Sembra che debba
scandire il tempo che fu. Forse anche di qui è passato Harry Potter, 
diretto al binario 9 e 3/4.
Tiro fuori un quaderno e inizio a scrivere.

mercoledì 7 ottobre 2009

zuppa di cozze al rum

L’uomo è alto, i lunghi capelli
neri sono legati in un codino. Barba e baffi solcano il suo viso.
L’espressione è assorta. Indossa una camicia di tela grezza, bianca, con
maniche  a palloncino e volant sul
torace.


Le braccia nerborute colore del
cuoio testimoniano la sua abitudine al sole. Funi circondano il suo braccio
destro e dalla mano si dipanano nel raggiungere le navi  - cinque visibili, una di striscio – sono
immerse in acqua liscia e distesa. L’uomo chiude gli occhi e per un attimo
sente il sibilo dei gabbiani che passano poco sopra di lui, il vento che gli
sferza il viso e gonfia le vele alle sue spalle.


Il  comandante urla,  impartisce ordini all’equipaggio.
Gli scatti graduati del timone scandiscono il tempo. L’uomo non vuole pensare a
 Jacobs 
e alla sua zuppa di cozze al rum quindi riapre gli occhi. Dà un ultimo
strattone e le barche sono  nelle sue
mani.


I bambini gli si fanno intorno, allungano le mani, chiamano
a gran voce la loro barca. Fittibol  Gatsby Sandwik  L’uomo con 
un cenno ottiene  silenzio.  Li vede disporsi in cerchio, a mani tese. Ricevuto il loro tesoro se lo accarezzano in uno sguardo,  salutano  e corrono verso casa. L'uomo  si volta, del mare non è rimasto nulla, solo il riflesso di una fontana, raccoglie le funi e si muove verso il sole inclinato.