martedì 22 gennaio 2008

Zi' Palmira



L’osteria del Corso stava in
mezzo alla piazza. Nessuno sapeva dire il perché di quel nome. C’era chi
favoleggiava di un misterioso corso che aveva deciso di stabilirsi sul
continente, chissà come aveva scelto Ripalto e lì era rimasto. Altri lo ritenevano il cognome di una famiglia della
zona, ormai estinta.  In buona parte il
paese se ne infischiava. Corso o non corso quella era l’osteria di zi’
Palmira: un’istituzione. Era lei che teneva aperto il locale, tutto il giorno,
per i buoni amici e i pochi clienti.


La mattina venivano le comari. Compravano il sale, qualche grano di caffè e si
scambiavano le ricette per il pranzo. Al
pomeriggio arrivano gli uomini, si sistemavano in una stanzetta laterale e
giocavano a carte. Lo spazio era poco; c’erano un paio di tavoli coperti da
tovaglie verdi, a tratti, consunte. I mazzi di carte li teneva zi’ Palmira. Li
consegnava e segnava il nome di chi ne doveva rispondere,  poi si sedeva per un po’ a osservare il gioco.
Quando le sue amiche andavano a
trovarla, tornava al bancone, preparava un the e lasciava andar la lingua. Erano
i pomeriggi della maglia, da fare in scioltezza, sedute sulle seggiole vicino
alla finestra o sotto il portico, durante la bella stagione.


Zi’ Palmira aveva ormai più di
settanta anni. Raccoglieva i capelli, grigi e lunghi, in una crocchia.  Quando
usciva indossava un foulard.  Trascorreva le giornate in perenne attività.   
Non aveva famiglia. Era rimasta sola presto. Con
il marito aveva perso la sua gioventù. Vestiva di nero, ogni giorno. Sulla
manica sinistra portava un fiordaliso ricamato. Bello, luminoso. Diverse
persone avevano cercato di scoprire la storia di quel fiore. Non c’erano
riusciti. Era lì e basta. Da sempre la sua compagnia più profonda.



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