sabato 3 novembre 2007

Non più qui

Mario sedeva su una panchina. «Io
di qui non mi muovo» Lo diceva senza cambiare tono, né alzare la voce, con una
convinzione che spiazzava chi gli stava accanto.


Vecchio di anni e di fatica.
Vecchio di un dolore che si portava appresso da quando il figlio era partito per la Russia.


 Si era alzato presto quel giorno.
La moglie l’aveva lasciata a casa. Quando arrivò alla stazione le banchine erano
già occupate da tante persone. Genitori, mogli e qualche bambino spaurito, ragazze che fissavano in uno sguardo il loro amore.
Attorniavano i giovani in divisa. Alcuni avevano l’aria di ragazzini imberbi,
altri sembravano più navigati. Non potevano conoscere il loro destino e spesso non conoscevano neppure
la loro meta. Parole ne erano scorse tante, quelle non costavano nulla. Onore,
dovere, la divisa indosso e pronti a partire. Pochi mesi e poi il ritorno. Questo era quello che dovevano sapere.


Mario si fece strada a fatica in
mezzo a quella marea umana. Iniziò a gridare il nome del figlio, chiedendo ai
soldati indicazioni su dove trovarlo. Finalmente lo vide. Si sporgeva da un
finestrino. Fece un cenno di saluto.
Il figlio, che di nome faceva Michele,  scese a terra. Si abbracciarono. In mezzo a quel rumore
riuscivano a stento  a sentire le loro
voci.


Gli diede il pacco che aveva
preparato la moglie. Qualche indumento e un po’ di cibo. Farà freddo meglio
cercare di essere preparati. Non è il caso di fare gli eroi. Scrivi. Torna.
Solo questo.
Michele provò a rassicurarlo. Non era la
prima volta partiva, erano un gruppo numeroso. Bisognava sperare.


Si abbracciarono ancora poi il ragazzo salì sul treno. C’era un ultimo momento ufficiale. Infine, la partenza.


Rimasero tutti lì anche dopo che
la tradotta era partita, fino a che l’ultimo vagone sparì alla loro vista. Il
fumo, uscito a sbuffi, era diventato una
nuvola confusa nel cielo.
Lentamente si mossero, ognuno accompagnato dai
suoi pensieri, dalle sue preoccupazioni.

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